Naima Morelli

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Tag "vernissage at midnight"

Al ritorno dalla mostra in Via del Vantaggio, sede della Galleria Mara Coccia, fino a casa mia in Piazza Vittorio (non vi do l’indirizzo preciso perché non voglio i vostri bravi ad aspettarmi sotto casa dopo che avrete letto questa recensione), sono state tre le cose che mi hanno colpito assai di più che la mostra che mi ha spinto fuori dall’uscio.

In ordine: le ragazzine sotto la metro che commentavano l’appena conclusa settimana della cultura “…perché le cose gratuite fanno schifo, tipo Palazzo Barberini…” , poi un chitarrista in Piazza del Popolo che suonava ispirato Tracy Chapman, interrotto bruscamente da un’esplosione di una sigla assordante dal palco montato lì vicino, con tanto di ballerini vestiti da conigli che si lanciano sulla scena provando la coreografia, e tre una bionda malinconica simile a una giovane Marianne Faithfull seduta ai tavolini del Bar Rosati.

Tranches de vie irripetibili che sarebbe quantomeno inutile paragonare ai dipinti di Claudia Peill.

Certo, direte voi, la vita è sempre superiore all’arte, figuriamoci se non è superiore a IKEA.

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“Quello che noto nelle mie opere è che tu le vedi e dici Uh che carine… ma poi le guardi con più attenzione è AAARRGH! Sono micidiali! Per me questa apparenza innocua è come una specie di presa in giro… e anche io in fondo sono così, più aggressiva di quello che sembro a prima vista!” mi dice Anita Calà in un impeto di passione di cui solo le rosse sono capaci.

Quattro del pomeriggio, siamo sedute, io, lei e  mio cappello (un Borsalino vintage grigio molto ghetto-chic, devo dire) al bar Ombre Rosse in Piazza Sant’Egidio, proprio di fronte al Museo di Roma in Trastevere.
Avevo incontrato l’artista qualche settimana fa alla Galleria Nube di Oort dove è esposta la sua videoistallazione “Anita C” nell’ambito di una collettiva, insomma, un buon pretesto per approfondire il suo lavoro.

La storia di Anita Calà come artista visiva sembrerebbe partire da quando, dalla mattina alla sera, decise di mollare il suo lavoro di costumista ad altissimi livelli per cinema, teatro e televisione, per buttarsi nell’unico ambito dove l’unica certezza è l’incertezza: l’arte contemporanea.
In realtà è cominciata molto prima: “Mi ricordo questa scena delle pagine gialle: ero piccolissima, le scarabocchiavo e nella mia mente ogni pagina era una persona con un suo vestito particolare”

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The Museo di Roma in Trastevere represents, in the city of Rome, the only museum opened to photography in the true sense of the word.

Often you can find there interesting exhibitions on American photographers, like the unforgettable one on Stephen Shore.
These kinds of shows lead the roman audience to a certain vision of photography that is less renowned in Rome, and opens new dialogue possibilities between the city and the subject of the exhibition.
This was the case of Leonard Freed, the famous Magnum photographer.

It was Magnum that starts a weird combination between art and documentary photography, and Leonard Freed was one of them who followed the idea that a snapshot can be interesting, pushing the idea of spontaneity.

It seemed that Leonard had a predilection for Italy. From there the title “Io amo l’Italia”, an exaggerated declaration of love not to be suspected.
Indeed, people came called by Freed’s celebrity, finding something maybe below the level of the photographer’s serious work.
You know, it’s from 2006 that Leonard has been dead, so we can’t absolutely blame him for this exhibition.
Maybe he even hates Italy and he was forced to come. Maybe one time, just one time, he said, to make an Italian friend happy “Iow Aemoh leh’eetalia” with an odd American accent, and the newpapers reports this quote and unfortunately the curator of the exhibition read it and he said “Ok, let’s make an exhibition on Freed’s Italian photos”
So we can’t blame Leonard, really.
We could rather blame the curator, who had to place the photographs he wants to show in the context. That would mean as the context of Italy (and that’s ok) either the modern sensibility of the watcher (and that doesn’t work).

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Tre stanze, quella della Galleria Ingresso Pericoloso, per cercarsi, e non è forse vero che il modo migliore per trovarsi è comunicarsi?

Lunghe passeggiate dai Fori alle borgate facendo da psichiatra e da paziente ad un amico, in una città che passa dalle vestigia romane ai palazzi di periferia, lasciandosi attraversare da così tante realtà differenti, dalla cosiddetta Dolce Vita agli sberleffi di Montecitorio, ma rimanendo sempre Roma.

Ci hanno costruito dentro in troppi stili diversi e troppo velocemente, potremmo crollare da un momento all’altro, ma possiamo anche avere il privilegio di riuscire sempre diversi, cambiare abiti repentinamente senza apparente continuità e passare da un Borsalino a un berretto da rapper nell’arco di pochi minuti, risultando sempre più o meno credibili.

Per quanto mi riguarda, “Uno, nessuno e centomila” l’ho sempre trovato molto più interessante di “Conosci te stesso”. Peraltro i due motti i non sono necessariamente a contrasto, e forse è proprio questo che grida Pablo Rubio guardando verso l’alto nei suoi numerosi ritratti fotocopiati e trattati ciascuno in maniera diversa; applicazioni di garze, metallo, pittura, collage, tali modificare un aspetto esteriore comune.

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