Naima Morelli

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What’s up with your book?
Well, I just overcome the worst step of them all: ranking all the post-its I’ve made.
In the beginning writing all the information about Indonesian contemporary art on the post it notes sounded good.
I was reading essays, catalogues, articles and stuff about the topic and I would be able to write down the information I’ve just learned and all the references directly on the post its.Then I stuck them on the wall and that was that.
Sweet. And practical too.
After a while it became a mess, sort of yellow geographic map on the white sea of my wall. To find a single information was hell.
Yeah, it was the Post-it Pandemonium.

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the

Hot white tea and a slice of cake.
Inspired by this Simonedebeauvoirian-Sartrarian-Camussarian extra
romanticized attitude of writing in the cafes instead of quietly staying
home and working hard, my old fellow Lucas and I started hanging out in the
in the cafes on Via Giulia, Rome every so often.

I was reading a couple of books to widen my perspective on Indonesian
Contemporary Art. For an insight into the  East/West dichotomy, the curator of Indonesia’s exhibition at MACRO, Dominique Lora, recommended Flavio Caroli’s “Arte d’Oriente Arte d’Occidente”.

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artapart

It’s been two years since my collaboration with Art a Part of cult(ure) began. My first article was about the japanese artist Masachi Echigo, you can read it here.

I’ve met Art a Part director Barbara Martusciello in a gallery in Piazza di Spagna, she was doing an interesting series of lectures about contemporary art.
At that time I already wrote for the magazine Arskey and the webmagazine Teknemedia, but I wasn’t very happy with them because they give me sort of limitations of style and criticize the artists was totally forbidden.

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heridono

Luogo di coordinate 0:0, probabilmente in un fumetto.

Legata ad una sedia, in mano a scagnozzi mettiamo, chessò, russo-mongoli appassionati d’arte, pronti a scazzottarmi, sono costretta a rivelare cos’è, o meglio cosa ho scoperto, di quest’arte contemporanea indonesiana.

“Ma come faccio a dirvelo maledizione santa! L’arte contemporanea non si presta a definizioni, è fluida, non deve essere ingabbiata, non può…”
Smack!
Il primo cazzotto arriva e quasi mi fa saltare i denti.
Riprova.
“Ci sono tanti artisti diversi, ognuno con la sua poetica, la sintesi, la sintesi cari signori, è depauperazione!”
Non capiscono la parola.
Gli sembra troppo scolastica.
Smack!
Te lo chiedo un’ultima volta…
“Con le buone immagino…” rispondo sputando saliva vermiglia
… cosa cercavi in Indonesia?

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Since Art Residences were established, artists took advantage and started travelling around the word.
It was such a great possibility. Who can refuse accommodation and a guarantee daily meal in faraway countries, ending with a personal exhibition?

In residence time artists gave birth to projects which are often result of an hybridising process.

Weird installations and psychedelic videos issued out to the artists previous work and the host country influences.
Sometimes is just the exhibition place that is unusual for a kind of art, and that is exactly “The Human Factor” exhibition case.

So, you have to imagine a typical late ‘800 starting ‘900 Italian noble mansion, just in the middle of Villa Borghese Gardens, Rome. There’s were the sculptor an composer Piero Canonica lived, but now it’s a museum filled with statues, paintings and beautiful relics.
Basically the interiors and the furniture remained the same, but sometimes curators tries to renew the environment, making contemporary art exhibitions.

Could sound like a weird experiment to Liang Shuo (China), Charles Lim (Singapore) , Koki Tanaka (Japan) and Wan Hong-Kai (Taiwan), the attendees to the Qwartz Rome Residency Program.
The idea was matching oriental contemporary art with an old typical roman ambience.

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“Quello che noto nelle mie opere è che tu le vedi e dici Uh che carine… ma poi le guardi con più attenzione è AAARRGH! Sono micidiali! Per me questa apparenza innocua è come una specie di presa in giro… e anche io in fondo sono così, più aggressiva di quello che sembro a prima vista!” mi dice Anita Calà in un impeto di passione di cui solo le rosse sono capaci.

Quattro del pomeriggio, siamo sedute, io, lei e  mio cappello (un Borsalino vintage grigio molto ghetto-chic, devo dire) al bar Ombre Rosse in Piazza Sant’Egidio, proprio di fronte al Museo di Roma in Trastevere.
Avevo incontrato l’artista qualche settimana fa alla Galleria Nube di Oort dove è esposta la sua videoistallazione “Anita C” nell’ambito di una collettiva, insomma, un buon pretesto per approfondire il suo lavoro.

La storia di Anita Calà come artista visiva sembrerebbe partire da quando, dalla mattina alla sera, decise di mollare il suo lavoro di costumista ad altissimi livelli per cinema, teatro e televisione, per buttarsi nell’unico ambito dove l’unica certezza è l’incertezza: l’arte contemporanea.
In realtà è cominciata molto prima: “Mi ricordo questa scena delle pagine gialle: ero piccolissima, le scarabocchiavo e nella mia mente ogni pagina era una persona con un suo vestito particolare”

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Ricordate quando da bambini facevate i funerali agli uccellini morti nel giardino? Gli costruivate una piccola tomba, scavavate un fosso e lo cospargevate di fiori. Poi cantavate una preghierina mentre gli altri bambini vi stavano a guardare.
Come? Non avevate un giardino da piccoli?

Mi dispiace per voi, ma sono certa abbiate senz’altro la prontezza di immaginarvi in ogni dettaglio la commovente scena, e dunque di capire lo spirito di fondo con il quale Robberto (uno dei più validi tra i nuovi artisti sfornati dall’Accademia di Belle Arti), ha deciso di muoversi per questa performance.

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Once a friend of mine said to me: “I don’t really like funny art”

We were arguing on Pino Pascali, the Italian artist working in the seventeen, mostly known for his sculptures. Not exactly Canova’s style. Something like “Walt Disney going mad”, I mean, whale tales sprouting from the floor, brush caterpillars, pregnant canvas, that sort of things.
I not agree with my friend (who wasn’t Clement Greenberg anyway).
For me, art have to be game. A quest sometime. Something that could catch your imagination.
It’s better if art don’t take herself to seriously. I mean, not even stupid. Just intriguing. 

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“Don’t look at the pictures” could be the subtitles of the Demian’s Gagosian exhibition.

The antefact is that the January 12, will be Damien’s shows in the Gagosian Gallery worldwide. “Twenty five years of Spot Paintings” it’s the official title, and seems to be very serious, even knowing the brat who Damien is.
No corpses, no putrefaction, no flies… it could be a relaxing exhibition.

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Quanta ironia nel collocare una mostra dal titolo “Paura dell’Altro” proprio in una chiesa, quantunque sconsacrata: “Non ti dico che casino conla Sovraintendenzaper collocare la scimmia di Ragalzi sull’altare”, mi dice avviluppato in una mantella beige Carlo Pratis della Galleria Delloro (galleria tra i quali artisti figurano Paolo Grassino e, appunto, Sergio Ragalzi).
Ma andiamo ai fatti e bando all’anticlericalismo, che pure quella è una moda, e d’altronde il Papa ha pure ammesso che nelle Crociate c’era un piccolo errorino.

Si parlava di scimmie.
Allora, ce l’avete presente quando nel Libro della Giugla c’è quel tempio abbandonato, occupato (nel senso centrocialesco del termine) da oranghi?
Ecco, prendete quell’emozione che, sono certa, avrete senz’altro provato con i vostri nipotini o figlioletti sulle gambe, o magari proprio voi stessi in braccio a papino e mammina.
Prendete quell’emozione e intingetela in quelle notti dove, un po’ più grandicelli, non riuscivate a prendere sonno per paura della morte, del nulla: avrete Ragalzi con sua serie delle scimmie.

Può darsi non vi basti. Può darsi sentiate la necessità di contestualizzare la cosa.
Bene.

Immaginate di essere nati a Bassano del Grappa, e di avere nel cassetto un fazzoletto della Lega Nord, con vostra moglie sprezzante che lo usa per pulire il vaso da notte sotto il giaciglio coniugale. La vostra casa, nonostante l’opposizione della consorte dotata di un minimo di buon gusto, tracima di cianfrusaglie padane, suppellettili di legno, centrotavola rustici e coltellini svizzeri. L’arredamento in effetti sembra voler soffocare un certo horror vacui ma, ebbene si, tirando via il sipario è proprio questo che rimane: il Grande Vuoto.

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artmonthlynaimamorelli

Art Monthly Australia published my review of  Gao Brothers performance in Piazza del Popolo, Rome with the title “Gao Brothers: The Utopia of Hugging for 20 Minutes”.
Photos of Luigi Ielluzzo.

Here you are the link to Art Monthly website

Here you are the editorial preview of the issue

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Tano D’Amico lancia al registratore appoggiato sul tavolino uno sguardo lungo, obliquo, minaccioso, di assoluta disapprovazione. E si che è stato lui a dire che la macchina fotografica è stupida, ragionevolmente non considererà un registratore tanto più intelligente: “Preferisco che tu scriva quello che ti rimane impresso.”

Siamo seduti ad un bar vicino l’Accademia di Belle Arti di Roma, in Via di Ripetta, e già qualche studente si è seduto al tavolo con noi, accolto con allegria da Tano.
C’è un’empatia naturale e reciproca tra i ragazzi e il “loro” fotoreporter, quello che gli ha fornito le immagini mitologiche delle rivolte studentesche, dagli anni ’70 fino ad oggi, oltre le banalizzazioni “pornografiche”, come le definisce lo stesso D’Amico, che i media erogano a getto continuo: “Sono immagini brutte, che non aiutano a vivere, bloccano la memoria, spesso non aiutano nemmeno ad esorcizzare il presente. Sono immagini fatti con gli occhi del boia, in una sorta di compiacimento della crudeltà, con l’alibi della documentazione. In queste immagini il carnefice ha un quoziente di umanità maggiore della vittima e sono indispensabili per chi comanda.

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