Naima Morelli

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Centoventi opere tra dipinti, sculture e disegni; insomma, è una panoramica a tuttotondo, esaustiva e completa, quella offerta dal Museo MADRE di Napoli, a dieci anni di distanza dall’ultima esposizione italiana di Georg Baselitz.
C’è da dire che Baselitz non è proprio tra quegli artisti che hanno avuto un percorso lineare: espulso, perché giudicato inadatto, dalla Hochschule für bildende und angewandte der Kunst di Berlino Est, riesce a trasferirsi a Berlino Ovest. Prosegue dunque gli studi alla Hochschule für bildende Künste; evidente già nei suoi primissimi lavori la sua incredibile capacità di creare un figurativismo sempre sull’orlo dell’astrattismo.
Il vero scandalo e la vera e propria fama arrivano nel 1963: in occasione della mostra alla galleria di Michael Werner e Benjamin Katz, vengono sequestrati per oscenità Der nackte Mann e il famoso Die große Nacht im Eimer.
In effetti, soffermandosi ad osservare il suo lavoro esposto nelle sale del MADRE, ci si accorge di una lucida e generale volontà da parte di Baselitz di “scandalizzare il borghese”.
Ai dipinti del primo periodo, quelli più disturbanti sia nei soggetti che nell’esecuzione che nei colori (non è un caso che l’artista sia lasciato ispirare dall’arte prodotta da persone affette da disturbi mentali e soggetti emarginati), ne seguono altri all’insegna del realismo critico da lui propugnato nel Manifesto Pandemonico. Chiare si palesano le influenze dell’espressionismo astratto francese e del minimalismo americano condito con un pizzico di intellettualismo derivato dalla pop art che proprio in quegli anni dominava lo scenario artistico.
Il dato che però emerge limpido, in tutta la sua opera, è il tentativo di voler trasporre degli eventi psichici in funzioni fisiche. Questo può sì avere una lettura individuale, ma è tanto più applicabile alla coscienza collettiva, considerando in particolare il momento storico e geografico vissuto da Baselitz e da tutta la sua generazione, inevitabilmente influenzata dalle problematiche del dopoguerra tedesco.
Sebbene quindi il movente di gran parte dei dipinti sia sostanzialmente lo stesso, c’è da dire che l’artista, tenendo fede alla sua reputazione di eversivo, ha sempre cercato di rompere in maniera netta con quello che aveva realizzato in passato. Dopo una fase successiva alla sua realizzazione piena del realismo critico, lo vediamo infatti attingere, merito anche al soggiorno fiorentino del 1965, al manierismo, al quale si deve l’ispirazione per la creazione delle figure eroiche ribattezzate “nuovi tipi”.
Un’altra svolta decisiva si ha con la rielaborazione della lezione cubista, che lo porta a realizzare opere “spezzettate”, le Streifenbilder . Grazie alla delimitazione di linee che separano le varie strisce sfasate tra di loro, quasi si trattasse di un fumetto, l’artista riesce a dare l’impressione di un’alterazione spaziale e temporale.

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Non si tratta di disseppellire vecchie ideologie defunte, men che meno di celebrare i grandi schieramenti del secolo scorso, nazismo e comunismo(in questo caso non ideologie astratte ma riferite con esattezza ai due grandi totalitarismi di Hitler e di Stalin): la questione, in effetti, viene posta in termini meno semplicistici e parte da presupposti molto più profondi.
Dice l’autore del misfatto artistico, per così dire, Gian Marco Montesano: “La questione di sapere se sia giusto o ingiusto demonizzare l’intera Germania a causa del Nazionalsocialismo, così come lo stabilire se i crimini di Hitler siano inferiori, superiori o equivalenti ai delitti di Stalin mi è del tutto estranea. La problematica che mi ha sempre occupato non è mai stata di ordine politico quanto piuttosto di natura concettuale: stiamo parlando della natura del Male”. Da cristiano ex militante nelle file populiste Montesano si interroga, come ogni donna o uomo dotati di un minimo di approccio critico alla realtà: “Cos’è esattamente il Male?”

Partendo dal presupposto che il Male è insito nella creazione, nella storia e nelle singole persone, l’artista non pretende di trovare col proprio lavoro una risposta definitiva a interrogativi che i migliori teologi e filosofi non sono mai riusciti a risolvere. Il compito dell’arte, si sa, non è quello di sciogliere ancestrali dilemmi, piuttosto si occupa di sensibilizzare l’individuo:“Ho sempre e solo inteso tradurre, nell’eloquenza semplice e diretta delle immagini, la persistenza di un problema centrale e, evidentemente, insolubile”

Impossibile restare in uno stato d’animo indifferente, passando in rassegna le pareti della galleria Umberto di Marino dove sono esposti i dipinti di Montesano, riproduzioni fedeli di manifesti propagandistici di regime. Nell’accostamento delle immagini a coppie, l’una ad esaltare la dittatura nazista, l’altra quello comunista, si nota immediatamente come queste siano, in termini di meccanismi comunicativi (persuasivi per meglio dire) ed elementi grafici, sostanzialmente simili: entrambi accattivanti come manifesti cinematografici.

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“Goodbye my darling”, il titolo dell’ultima mostra del giovane fotografo Danilo Correale, è un titolo fortemente ironico.
Sembra essere un addio un po’ melenso agli anni ’70, e in effetti l’esposizione è focalizzata proprio su quegli anni, ma non quei “mitici settanta” mistificati dalla moda delle passerelle, piuttosto quelli più tipicamente “da giornale”. E’ particolarmente significativo che un artista così giovane analizzi degli anni che non lo hanno coinvolto in prima persona, ed è ancora più interessante osservare il distacco e la pianificazione con la quale conduce il discorso, evitando nostalgie di sorta che sarebbero risultate fin troppo facili.

L’impatto grafico è immediato: attraverso foto di vette di montagna vengono trasfigurati i grafici e le statiche in uno strano connubio economico-onirico, mentre una linea nera corre sulle pareti inseguendo una data, il ’73, l’anno della crisi petrolifera.

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E’ il Palazzo delle Arti di Napoli ad aprire le porte alla prima mostra monografica in ambito italiano dell’artista croato Svjetlan Junakovic.

Fin dal titolo “Il circo volante di Svjetlan Junakovic”si palesano chiari gli intenti ludici dell’artista, la cui opera è stata sempre caratterizzata da un approccio giocoso alla trasfigurazione della quotidianità. La voglia di libertà lo porta ad uno sconfinamento tra materie tematiche e linguaggi differenti, con una strizzata d’occhio ai grandissimi dell’arte del passato (specialmente quelli più vicini alla sua sensibilità; sono infatti ricorrenti riferimenti alla “danza” di Matisse e alle tematiche circensi di Picasso).
La mostra si può grossomodo suddividere in due parti, distinte per stile e tematiche.

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Continua il sodalizio tra la galleria napoletana Umberto di Marino Arte Contemporanea e l’artista giapponese Satoshi Hirose (cominciato nel 2004 con la personale “Pas au de-là), continua la fusione di linguaggi e culture messe in atto dall’artista come ribellione alla globalizzazione; una fusione creatrice in contrapposizione ad una fusione che appiattisce, confonde, appanna e delude.

Così è tra metafisica e fruizione di un’estetica della leggerezza, che si colloca “Microcosm” l’ultima esposizione di Saroshi Hirose.

“Mi muovo come un viaggiatore, o un vagabondo di cultura, all’interno di culture differenti” dichiara nei suoi Sei memorandum per il prossimo millennio lo stesso artista, indicando in quest’ottica l’arte come spazio astratto privilegiato in cui muoversi liberamente, dove il mix di elementi e culture è permesso. Solo in questa dimensione è possibile concretizzare la tematica che sta più a cuore all’artista: il viaggio attraverso la pluralità.

Viaggio come comunicazione, traduzione e scambio, soprattutto come cambio di prospettiva in un mondo troppo rigidamente predefinito. E’ questo il senso di accostare dettagli apparentemente incongruenti; spezzare la consuetudine, creare nuovi parametri, ampliare i valori umani, catturare la flessibilità stratificata della vita contemporanea e risolvere l’incertezza che relaziona l’individuo al mondo.

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