Naima Morelli

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A guardarlo l’impressione è quella di assistere ad un solenne incontro di tre meravigliose balene argentate ma a quanto pare l’Auditorium di Renzo Piano è come le nuvole: ognuno lo interpreta come vuole, secondo la sua ispirazione del momento.
C’è chi chiama le tre sale scarabei, chi le paragona ad armadilli e diamine! le ho sentite anche paragonate a dei panini avvolti nella carta argentata, ma ufficialmente si chiamano Santa Cecilia, Sinopoli e Petrassi.

In realtà l’Auditorium nasce per l’esigenza di colmare una frattura urbana tra la collina di Parioli e la pianura fluviale del Tevere dove era stato costruito il villaggio olimpico a ridosso del quartiere Flaminio. Nel ’94 il comune di Roma bandisce una gara internazionale, e il progetto vincitore risulterà quello di Renzo Piano, che di concorsi ne ha vinti parecchi (basti pensare che in questo modo ha avuto occasione di realizzare il famosissimo Beaubourg, in collaborazione con Rogers).

Di Piano si è detto che perseguisse “la versatilità poetica delle forme e delle idee”. A guardare la sua opera omnia, almeno fino ad adesso, compiuti da poco 70 anni non dà accenni di voler smettere, è difficile dargli torto. C’è chi lo accusa di non avere uno stile riconoscibile, un complimento per uno per il quale lo stile corrisponde ad una gabbia, le cui sbarre sono i vincoli ad elementi architettonici sempre presenti nell’opera di un architetto; la sfida è attingere da tutti gli stimoli possibili per cambiare ogni volta. Più che i detrattori quindi, sono alcuni estimatori a fargli torto, elevandolo a archistar, una rockstar della progettazione, definizione che a Piano rifiuta. Piuttosto bisogna riconoscere che nel suo Auditorium Parco della Musica di rockstar vere e proprie con tanto di chitarra dalla sua inaugurazione nel 2002 ne sono passate parecchie, visto che il comune di Roma organizza continuamente concerti e spettacoli in questo centro multifunzionale.

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