Naima Morelli

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zabetta

“Incalzatrice della storia Freno del tempo Tu Bomba / Giocattolo dell’universo Massima rapinatrice di cieli Non posso odiarti”

Correndo giù per Via dei Mille nel caldo di un aprile napoletano del duemilaundici, cercando di arrivare al Molo Beverello in tempo per prendere l’Aliscafo dell’una e cinque, vale a dire essere a Sorrento per le due meno un quarto circa, ecco in questa corsa (perché si sa che il movimento fa arieggiare il cervello, purchè non vada in iperventilazione) le immagini della mostra di Zabetta si sovrappongono, si alternano in rima baciata, alternata, incrociata e slogata ai versi di “Bomb” di Gregory Corso.

Sulla rampa di legno vigilata dai Vucumprà, a fianco al Maschio Angioino, inevitabilmente parole e immagini sono già tutta una pappetta, sbatacchiate come un frullatore nella mia testa, non resta che sedersi sull’aliscafo e fare un po’ di ordine.
Dunque, Coda Zabetta non penso proprio che abbia scritto una lettera d’amore alla Bomba, quello è stato Corso. Piuttosto quello di Coda Z. si tratta di un lavoro ordinato che ha condotto a un risultato efficace, puntuale e profetico, come ci hanno tenuto tutti quanti a rimarcare con occhi da Cassandra color acque di Mergellina, alludendo chiaramente alla recentissima tragedia nucleare giapponese.

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Potrebbe essere solo una posa, questo è vero, ma d’altronde quando si sceglie di fare l’intellettuale alternativo e ci si riesce pure, non è  categoricamente ammesso soddisfare le legittime aspettative di nessuno, né del più accanito fan né del più severo critico.
Infatti, ecco che vediamo che quanto più i critici musicali e gli ammiratori si accaniscono a dare del “poeta” al proprio beniamino, con la chiara intenzione di fargli un complimento, tanto più il beniamino stesso rifiuta sdegnoso la definizione.

A parte il fatto che i fan non hanno un minimo di buon senso; basti pensare che chiamano poeta pure Ville Valo degli HIM che certo, come musicista sa il fatto suo, sicuramente ha un’ugola d’oro, senza ombra di dubbio è un gran bel ragazzetto, ma in quanto a ispirazione omerica stiamo messi male. Chiariamoci: niente in contrario a continuare ad utilizzare i soliti ritriti concetti legati a amore e morte e farlo anche in maniera abbastanza banale, e d’altronde lo stesso cantante degli HIM non ha mai avanzato nessuna pretesa, quindi il problema non si pone per nessuno! Insomma, chissenefrega se sotto i video di YouTube le ammiratrici in fregola, solitamente ragazzine che non superano i diciannove anni, scrivono di Ville “Che uomo, che poeta” (“com’è sexy” “me lo farei proprio” etc. etc.) , problemi loro, quelli sono i loro orizzonti, probabilmente lo scrivono anche di Bill Kaulitz sotto i video dei Tokio Hotel (dove ad ogni “che uomo” segue un’inevitabile, oramai prevedibile “Perché? E’ un’uomo?”), ma di questo non sono sicura perché francamente non ho mai sentito l’esigenza di andare vedere un video dei quattro marmocchi tedeschi.

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Maledetto.
Maledetto è l’aggettivo che svela il collegamento tra rock’n roll e la boheme.
Già la beat generation aveva attinto a piene mani dall’opera dei maudits e dopo di loro i poeti-rockstar hanno guardato ad entrambi; eppure questa roba, queste immagini, questa attitudine, è tutta ancora valida, sempre bollente, mai totalmente innocua.
C’è poco da fare; nessun accademico, pur inserendolo nelle antologie scolastiche, riuscirà mai a ripulire la reputazione di Arthur Rimbaud, che era un ribelle, un fuggitivo, uno scapestrato, in breve una canaglia, come lo definisce già nel titolo il saggio di Benjamin Fondane (recentemente tradotto da Le Nubi).
Il fatto era che il giovane bohemien odiava la mentalità chiusa e provinciale dei suoi compaesani di Charville, odiava la sua vita grigia, si sentiva oppresso dalla madre, dalla sua eccessiva preoccupazione per la rispettabilità, dalla rigida morale, dalla religione vissuta in maniera soffocante, quindi cos’altro poteva fare, se non fuggire? Fuggì allora, ma non a casa della nonna.
Prese il treno per Parigi.
Fu proprio nell’intenso periodo parigino che scrisse la famosa “Lettera del veggente” dove diceva, in breve, che per pervenire all’ignoto bisognava sregolare i sensi mediante l’uso di droghe, che poi è quello che teorizzerà anche Aldous Huxley prendendo il titolo del suo libro da un famoso verso di William Blake, un altro grande poeta pazzo ispiratore del rock.
Già, “Le porte della percezione”. D’altronde lo sappiamo tutti, gli anni di Huxley erano i ’60 quando rigetto dei valori borghesi e l’abbandono dalla casa parentale erano diventati qualcosa di più della fuga isolata di un ragazzino francese dal ciuffo spettinato.

Ed ecco allora Rimbaud scrivere in una lettera indirizzata al suo professore di Francese, quasi a dare voce a tutti i futuri sessantottini,:“Lei non è più insegnante per me. Io Le dono questo: della satira, come direbbe Lei? Della poesia?È la fantasia, sempre. – Ma, La scongiuro, non sottolinei né con la matita, né troppo con il pensiero…”.

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