Naima Morelli

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Tag "photography"

KimHak

CoBo Social has just published my interview with Cambodian photographer Kim Hak as the first of a three-part series on Cambodian photographers. In this piece I talk with Kim Hak about the special role photography holds in Cambodia for the collective memory.

Here is the link to the interview

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Jimbo

CoBo Social has published my interview with Indonesian artist and member of MES56 Jim Allen Abel, also known as Jimbo. I interviewed him in Singapore during Art Stage 2017 and he shared about his background and art practice.

Here’s the link to the piece

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TimesMaltaFotografia
Times of Malta’s Sunday magazine Escape has published my review on Fotografia, the international photography festival of Rome. It was good fun to write it – and if you are wondering how the selfie mentioned in the article actually looks like, look no further.

Here’s the link to the piece

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grahammiller1

The Australian art magazine Trouble has  just published the interview I had in Perth with photographer Graham Miller. The interview is part of my reportage about artists in Perth.

Here the link to the interview

Here the link to the online version of the magazine

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troublepag1

The Australian magazine Trouble has  just published the interview I had in Perth with artist Tarryn Gill. The interview is part of my reportage about the Perth Art Scene.

Here the link to the interview

Here the link to the online version of the magazine

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Bindi Cole is one of the first artists I interviewed in Melbourne.
I come to know about her work during the presentation talk of “Melbourne Now” exhibition at the NGV.
Her work span through different mediums, from photography to installation, and the themes are often related to her personal history and aboriginal issues.
She constantly challenges stereotypes, revealing overlooked complexities behind communities and identities. In the series “Not Really Aboriginal” she photographed her family and herself with black painting on their face. The title refers to the accusation that some people addressed to her, that of not being “really” Aboriginal, because of her anglosaxon aspect and her light skin.
One of her most challenging work is “Sistagirls”, a photographic series about the transgender community of the Tiwi Islands.
Recently Bindi Cole decided to reflect on her personal history, mainly through video and installations. Even if she went through tough times, her vision underlies a constant optimism and reveals the beauty of the human experience.
I find her recent installation with emu feathers “I Forgive You) (currently exhibited at Queensland Art Gallery) just moving.

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Rome

We have seen plenty of celebrations of the sea. The only subject that is as hackneyed as the sea is the sky. And love.
But really, to be innovative is not to talk about a new subject for the first time. To be innovative is to be able of talking about a corny subject in a new, or personal or moving way.
If you are a musician, go ask Ivano Fossati about it. If you are a painter, ask Piero Guccione. If you are a photographer, do what Monitor Gallery did. Go ask Antonio Rovaldi.

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alain3

“Ogni foto è un’esperienza.” conclude con accento francese, capello bizzarro, faccia gentile Alain Fleischer.
Prima di questa conclusione c’è ovviamente tutto il lavoro in mostra da Limen OttoNoveCinque, fotografie ad un primo sguardo cariche di mistero e quasi indecifrabili.

Il ciclo fotografico principale “Happy Days”, consiste in grandi stampe dove provare a descrivere il soggetto è già avventurarsi in un sogno surrealista: una cornice per terra, una proiezione di protagoniste femminili da quadri dell’antichità, un giocattolo a motore raddoppiato che sembra agitare la scena.
Gli effetti di sovrapposizione e illusione farebbero pensare ad un banale utilizzo di Photoshop: niente di più sbagliato. A differenza di quanto si possa credere, è solo questione di una grandissima abilità tecnica. Non di meno il processo con cui sono stati presi questi scatti è parte del simbolismo delle opere.
Spiega l’artista che si tratta della creazione di un collegamento del mondo adulto con quello infantile: “Gli adulti attaccano i quadri sempre alle pareti, i bambini giocano per terra. Ecco che proiettando un’immagine dall’alto, emerge questa impalpabile relazione.”
E si ci potrebbe inoltrare ancora più addentro a queste Correspondaces, in un gioco di rimandi infiniti.
« E’ la dimostrazione del potere della fotografia di catturare l’impalpabile ; io non ho mai visto queste immagini, esse esistono solo in quanto sono state fotografate. Questo giocattolo lo vediamo multiplo solo per via dei tempi di esposizione, così come questa proiezione che sembra scivolare fuori dal suo frame. »
Si avverte molta nostalgia in questi scatti, una suggestione malinconica come se l’artista volesse ricomporre il passato attraverso frammenti di luce.
Carpisco brani di discorso di un fruitore dalla fluente chioma rossa vicino a me : « … un ES invisibile che genera un superio etereo…»
« Prego? »

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The Museo di Roma in Trastevere represents, in the city of Rome, the only museum opened to photography in the true sense of the word.

Often you can find there interesting exhibitions on American photographers, like the unforgettable one on Stephen Shore.
These kinds of shows lead the roman audience to a certain vision of photography that is less renowned in Rome, and opens new dialogue possibilities between the city and the subject of the exhibition.
This was the case of Leonard Freed, the famous Magnum photographer.

It was Magnum that starts a weird combination between art and documentary photography, and Leonard Freed was one of them who followed the idea that a snapshot can be interesting, pushing the idea of spontaneity.

It seemed that Leonard had a predilection for Italy. From there the title “Io amo l’Italia”, an exaggerated declaration of love not to be suspected.
Indeed, people came called by Freed’s celebrity, finding something maybe below the level of the photographer’s serious work.
You know, it’s from 2006 that Leonard has been dead, so we can’t absolutely blame him for this exhibition.
Maybe he even hates Italy and he was forced to come. Maybe one time, just one time, he said, to make an Italian friend happy “Iow Aemoh leh’eetalia” with an odd American accent, and the newpapers reports this quote and unfortunately the curator of the exhibition read it and he said “Ok, let’s make an exhibition on Freed’s Italian photos”
So we can’t blame Leonard, really.
We could rather blame the curator, who had to place the photographs he wants to show in the context. That would mean as the context of Italy (and that’s ok) either the modern sensibility of the watcher (and that doesn’t work).

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Dopo un interrogatorio durato un’ora e mezza Crewdson non ha sputato il rospo, non ha cantato intendo, e con queste parole voglio dire che non si è lasciato andare a quelle meravigliose rivelazioni che avrebbero sgomentato la platea, ancora più del suo repentino cambiamento di estetica in quest’ultima mostra “Sanctuary”, da Gagosien.

Un po’ una tortura, sebbene sopportata in traduzione simultanea sulle comode poltrone della sala conferenze del MAXXI, il percepire questo sottinteso, questi “motivi personali” colpevoli delle svolta, che il critico del New York Times Michael Kimmelman, quanto mai speranzoso, ha cercato durante tutto il tempo di tirare fuori dalla bocca del reticente artista.

Un breve resoconto del fattaccio: Gregory, quello delle fotografie cinematografiche, quello di “Beneath the Roses”, quello che insomma quando guardate le sue fotografie a David Linch fischiano le orecchie, ebbene proprio lui decide di venire nella Città Eterna.

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Vi siete mai sentiti secolarizzati?

Rifletteteci bene, quando per voi suona la sveglia, magari dal cellulare, non è mai un rito, è sempre un fastidio, e QUINDI?
Quindi nella vostra agenda giornaliera sopprimete il sacro, mentre in vacanza Dio è morto nei miti dell’estate e va bene così, ma con tutte le parole del caso, perché una cosa è citare Guccini, un’altra è citare quel ridicolo di Vasco Rossi.

Oppure no, sono partita con le accuse troppo frettolosamente, per esempio adesso mi pare già di vedervi mentre scendete nella cripta di una chiesa, magari proprio dove ci sono le spoglie del vostro santo preferito, visto che avrete pure voi una top ten dei santi e una collezione di santini in un album  come le figurine panini, vi vedo insomma con i vostri occhiettini che sbrilluccicano riflessi nel metallo dorato degli ex voto appesi alla parete; gambette, criaturielli, cuoricini, e persino qualche squisito quadrettino di barche e tempeste per chi come me viene da un posto di mare.

O magari le vecchie chiese non vi interessano, eppure passeggiando per le vie della vostra città avrete sicuramente visto qualche colorato quanto inaspettato simulacro alla memoria di qualche sventurato deceduto in un punto preciso della strada o della metro; tutto ciò che se siete secolarizzati è solo triste, se non lo siete del tutto è si triste, ma anche molto affascinante.
Sto parlando della religione del popolo, sempre così selvaggia e pagana in tutto il mondo, quel sacro così goffo e così vero che pretende di occupare il suo spazio fisico, tanto da trovarcelo improvvisamente davanti agli occhi quando meno ce lo aspettiamo.

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“Goodbye my darling”, il titolo dell’ultima mostra del giovane fotografo Danilo Correale, è un titolo fortemente ironico.
Sembra essere un addio un po’ melenso agli anni ’70, e in effetti l’esposizione è focalizzata proprio su quegli anni, ma non quei “mitici settanta” mistificati dalla moda delle passerelle, piuttosto quelli più tipicamente “da giornale”. E’ particolarmente significativo che un artista così giovane analizzi degli anni che non lo hanno coinvolto in prima persona, ed è ancora più interessante osservare il distacco e la pianificazione con la quale conduce il discorso, evitando nostalgie di sorta che sarebbero risultate fin troppo facili.

L’impatto grafico è immediato: attraverso foto di vette di montagna vengono trasfigurati i grafici e le statiche in uno strano connubio economico-onirico, mentre una linea nera corre sulle pareti inseguendo una data, il ’73, l’anno della crisi petrolifera.

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