Naima Morelli

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Interview

 

Ecco cosa vedete, nascosti dietro al vetro a specchio.
In una stanza metafisica, bianca come uno spazio espositivo, io e l’artista Valentina De’ Mathà ci sediamo ad un tavolo candido, sul quale è adagiato un niveo foglio.
Io scrivo una domanda, e in silenzio passo il foglio a Valentina. Lei scrive la risposta, piega la parte superiore della carta in modo che non sia leggibile e mi ripassa il foglio.
Alla ventesima domanda Valentina si alza ed esce. Anche io faccio lo stesso, ma prima apro il foglio e ve lo attacco, dal verso leggibile, al vetro specchio.

C’è scritto questo:

Cosa c’è sotto?

Il caso che non esiste.

Perché vivi in Svizzera?

All’inizio perché ho improvvisamente sentito la necessità di staccarmi dall’Italia e soprattutto da Roma, verso la quale avevo un attaccamento morboso. Quindi, al culmine di questa morbosità, ho deciso di tagliare il cordone ombelicale e fuggire via senza guardarmi indietro, ma soprattutto perché mi sono resa conto, con estrema lucidità e amarezza, che l’ Italia non sarebbe stata in grado di darmi le opportunità professionali, il sostegno e i confronti di cui avevo bisogno, e che avrei trovato solo viaggiando.

Non era mio obiettivo trasferirmi in Svizzera, anzi, ma dieci giorni prima di partire verso Berlino ho conosciuto Roger Weiss, fotografo svizzero, colui che poi è diventato mio marito.

Ho visto artisti che sulla carta d’identità hanno scritto “artigiano”, tu invece?

Ho solo il passaporto.

L’hai mai persa la carta d’identità?

Mai.

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Tano D’Amico lancia al registratore appoggiato sul tavolino uno sguardo lungo, obliquo, minaccioso, di assoluta disapprovazione. E si che è stato lui a dire che la macchina fotografica è stupida, ragionevolmente non considererà un registratore tanto più intelligente: “Preferisco che tu scriva quello che ti rimane impresso.”

Siamo seduti ad un bar vicino l’Accademia di Belle Arti di Roma, in Via di Ripetta, e già qualche studente si è seduto al tavolo con noi, accolto con allegria da Tano.
C’è un’empatia naturale e reciproca tra i ragazzi e il “loro” fotoreporter, quello che gli ha fornito le immagini mitologiche delle rivolte studentesche, dagli anni ’70 fino ad oggi, oltre le banalizzazioni “pornografiche”, come le definisce lo stesso D’Amico, che i media erogano a getto continuo: “Sono immagini brutte, che non aiutano a vivere, bloccano la memoria, spesso non aiutano nemmeno ad esorcizzare il presente. Sono immagini fatti con gli occhi del boia, in una sorta di compiacimento della crudeltà, con l’alibi della documentazione. In queste immagini il carnefice ha un quoziente di umanità maggiore della vittima e sono indispensabili per chi comanda.

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