Naima Morelli

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Tano D’Amico lancia al registratore appoggiato sul tavolino uno sguardo lungo, obliquo, minaccioso, di assoluta disapprovazione. E si che è stato lui a dire che la macchina fotografica è stupida, ragionevolmente non considererà un registratore tanto più intelligente: “Preferisco che tu scriva quello che ti rimane impresso.”

Siamo seduti ad un bar vicino l’Accademia di Belle Arti di Roma, in Via di Ripetta, e già qualche studente si è seduto al tavolo con noi, accolto con allegria da Tano.
C’è un’empatia naturale e reciproca tra i ragazzi e il “loro” fotoreporter, quello che gli ha fornito le immagini mitologiche delle rivolte studentesche, dagli anni ’70 fino ad oggi, oltre le banalizzazioni “pornografiche”, come le definisce lo stesso D’Amico, che i media erogano a getto continuo: “Sono immagini brutte, che non aiutano a vivere, bloccano la memoria, spesso non aiutano nemmeno ad esorcizzare il presente. Sono immagini fatti con gli occhi del boia, in una sorta di compiacimento della crudeltà, con l’alibi della documentazione. In queste immagini il carnefice ha un quoziente di umanità maggiore della vittima e sono indispensabili per chi comanda.

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La scimmia, animale ancestrale, sommo enigma più volte rappresentato dallo stesso Sergio Ragalzi (un grosso dipinto rappresentante il primate misterioso occupava lo stand della Galleria Delloro alla recente Roma Road to Contemporary Art), deforma anche il volto di queste venti sfingi in via del Paradiso.

Non più umani con il corpo felino, ma maestose sagome con il volto di scimmia, stagliate contro i colori di un deserto puramente mentale, creato apposta per un Indiana Jones o un Corto Maltese, o per qualsiasi altro Edipo viaggiatore dei nostri tempi o di quelli futuri, pronto a sedersi di fronte a lei, silohuette contro silohuette, lasciandosi porre questi indovinello.
Eppure, come il boa del piccolo principe, le sfingi di Ragalzi hanno inghiottito qualcosa che non gli appartiene, fino a diventare un tutt’uno con essa, in un rapporto di precisa identità.
E’ una bomba, il missile intelligente e distruttivo, quell’orrore prodigioso dall’intelligenza matematica. Ma cosa potrebbe chiedere il tremendo siluro alle sue vittime?

C’è sempre un quoziente di enigma in queste guerre senza senso, per noialtri a cui non interessa più di tanto il petrolio, se non al momento di fare il pieno. Petrolio del quale pure queste sfingi dal profilo scimmiesco paiono infradiciate come gabbiani nella marea nera.
Sfingi che sono macchie colpevoli, così come è oscura la colpa di Edipo. Scenari da Arabia Saudita, poi Egitto, ma anche Libia; questi dipinti sono un grido che emettono in coro. Gridano: “Inevitabile!”

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Per due giorni all’anno Eduardo De Martino, riprende i pennelli, li intinge nell’olio di lino, misto a due gocce di essiccante per essere sicuro di rispettare i tempi, e comincia a dipingere.

E’ ormai anziano, centenario, il suo animo è pacificato, basta incrociatori, corazzate, corvette e fregate, stavolta il suo è un quadro “in fieri”, dove con una campitura cerulea crea il cielo, e tuffandosi nel turchese lo distacca dal mare. Poi pennellate leggere di bianco titanio, tic tic, come in un minuetto, e si materializzano delle piccole vele, nel picchiettare una virgola rossa, è Fara, e questo è il Trofeo De Martino, un dipinto che dura circa 4 ore, nasce e scompare in due giorni, ma rimane molto più a lungo nella memoria emotiva dei suoi partecipanti e di coloro che, affacciati dalla costa alta e rocciosa, ne osservano la leggera poesia.

Le imbarcazioni dipinte da De Martino, si trovano nei musei e nelle collezioni di tutto il mondo, coerentemente alla vita di un uomo che ha percorso come decoratissimo ufficiale di marina e come ispiratissimo pittore le rotte che da Meta di Sorrento conducono all’Inghilterra e al Sudamerica.

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L’arte di Ragalzi sono le impressioni tre secondi e mezzo dopo essersi svegliati in seguito ad una caduta dal letto.

Si dal caso che la sera dell’inaugurazione dal letto era caduta una bella folla, e la formula della Galleria Delloro, che potrebbero inserire a fianco al loro logo tipo barretta kinder +latte –cacao, è invece +vivacità –biondone da vernissage. L’età media infatti attorno a questa galleria si abbassa, nonostante gli artisti proposti non sono propriamente dei pischelletti, ma chissà, saranno i galleristi che parlano del lavoro di Ragalzi come se si trattasse dell’ultimo album della loro rockstar preferita (e in effetti nelle opere di Sergio qualche accordo di un certo tipo di metal risuona limpido), saranno strane sostanze dai poteri persuasivi disciolte nel soave vino, sarà insomma qualcosa di significativo che porta sangue giovane nell’angolo di Piazza Dell’Oro, dove si trova appunto l’omonima galleria.

Do di gomito a una sconosciuta di fronte alle “opere foglia” alla parete, e lei come azionata dà il suo parere con voce spiritata “Sergio… ha questo linguaggio archetipale… perché è difficile sa… parlare in maniera così chiara, così chiara” e qui gli occhi cominciano a luccicarle, forse a riempirsi di lacrime? Non mi è dato a sapere perché abbassa immediatamente lo sguardo come a controllarsi qualcosa sotto la punta delle appuntite scarpe “… è molto, molto difficile parlare di archetipi senza cadere… nel banale…nel già visto insomma…” “Muove qualcosa dentro” azzardo io. Lei annuisce in silenzio, mormorando qualcosa di incomprensibile.

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Dopo un interrogatorio durato un’ora e mezza Crewdson non ha sputato il rospo, non ha cantato intendo, e con queste parole voglio dire che non si è lasciato andare a quelle meravigliose rivelazioni che avrebbero sgomentato la platea, ancora più del suo repentino cambiamento di estetica in quest’ultima mostra “Sanctuary”, da Gagosien.

Un po’ una tortura, sebbene sopportata in traduzione simultanea sulle comode poltrone della sala conferenze del MAXXI, il percepire questo sottinteso, questi “motivi personali” colpevoli delle svolta, che il critico del New York Times Michael Kimmelman, quanto mai speranzoso, ha cercato durante tutto il tempo di tirare fuori dalla bocca del reticente artista.

Un breve resoconto del fattaccio: Gregory, quello delle fotografie cinematografiche, quello di “Beneath the Roses”, quello che insomma quando guardate le sue fotografie a David Linch fischiano le orecchie, ebbene proprio lui decide di venire nella Città Eterna.

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Tre stanze, quella della Galleria Ingresso Pericoloso, per cercarsi, e non è forse vero che il modo migliore per trovarsi è comunicarsi?

Lunghe passeggiate dai Fori alle borgate facendo da psichiatra e da paziente ad un amico, in una città che passa dalle vestigia romane ai palazzi di periferia, lasciandosi attraversare da così tante realtà differenti, dalla cosiddetta Dolce Vita agli sberleffi di Montecitorio, ma rimanendo sempre Roma.

Ci hanno costruito dentro in troppi stili diversi e troppo velocemente, potremmo crollare da un momento all’altro, ma possiamo anche avere il privilegio di riuscire sempre diversi, cambiare abiti repentinamente senza apparente continuità e passare da un Borsalino a un berretto da rapper nell’arco di pochi minuti, risultando sempre più o meno credibili.

Per quanto mi riguarda, “Uno, nessuno e centomila” l’ho sempre trovato molto più interessante di “Conosci te stesso”. Peraltro i due motti i non sono necessariamente a contrasto, e forse è proprio questo che grida Pablo Rubio guardando verso l’alto nei suoi numerosi ritratti fotocopiati e trattati ciascuno in maniera diversa; applicazioni di garze, metallo, pittura, collage, tali modificare un aspetto esteriore comune.

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Vi siete mai sentiti secolarizzati?

Rifletteteci bene, quando per voi suona la sveglia, magari dal cellulare, non è mai un rito, è sempre un fastidio, e QUINDI?
Quindi nella vostra agenda giornaliera sopprimete il sacro, mentre in vacanza Dio è morto nei miti dell’estate e va bene così, ma con tutte le parole del caso, perché una cosa è citare Guccini, un’altra è citare quel ridicolo di Vasco Rossi.

Oppure no, sono partita con le accuse troppo frettolosamente, per esempio adesso mi pare già di vedervi mentre scendete nella cripta di una chiesa, magari proprio dove ci sono le spoglie del vostro santo preferito, visto che avrete pure voi una top ten dei santi e una collezione di santini in un album  come le figurine panini, vi vedo insomma con i vostri occhiettini che sbrilluccicano riflessi nel metallo dorato degli ex voto appesi alla parete; gambette, criaturielli, cuoricini, e persino qualche squisito quadrettino di barche e tempeste per chi come me viene da un posto di mare.

O magari le vecchie chiese non vi interessano, eppure passeggiando per le vie della vostra città avrete sicuramente visto qualche colorato quanto inaspettato simulacro alla memoria di qualche sventurato deceduto in un punto preciso della strada o della metro; tutto ciò che se siete secolarizzati è solo triste, se non lo siete del tutto è si triste, ma anche molto affascinante.
Sto parlando della religione del popolo, sempre così selvaggia e pagana in tutto il mondo, quel sacro così goffo e così vero che pretende di occupare il suo spazio fisico, tanto da trovarcelo improvvisamente davanti agli occhi quando meno ce lo aspettiamo.

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“Ed anche la roba era fatta per lui, che pareva ci avesse la calamita, perché la roba vuol stare con chi sa tenerla, e non la sciupa”.

E’ effettivamente un accumulo, paragonabile a quello del Mazzarò di Verga, che il collettivo siciliano Laboratorio Saccardi, duttile e poliedrico come sempre nella scelta dei mezzi espressivi, mette in scena alla galleria Z20.

Questa è la situazione: al centro della galleria c’è un carretto con tanto di tavuàzzi, fonnu di càscia, masciddàari e puttèddu, decorato e dipinto come i tipici carretti siciliani che univano l’ovvia funzionalità di trasporto ad una didattica; vi erano rappresentati, a beneficio della popolazione analfabeta, eroi cavallereschi e rappresentazioni mitologiche in tinte molto vivaci.

La differenza in questo caso, oltre ad decromatizzazione, è che l’iconografia si riferisce alla cronaca recente.

Bisogna quindi leggerlo questo carretto, decifrarlo, ma non si tratta di un alfabeto astruso, è anzi semplice come un fiaba popolare, un romanzo dove siccome nessuno sa dire con certezza cosa sia successo a quell’aereo nella strage di Ustica, si risolve l’enigma immaginando il veivolo nelle fauci di una specie di Godzilla.

Non si tratta di dissacrazione, tutt’altro, v’è di quella serietà fantasiosa e magica che mettono i bambini nei loro giochi.

Leone, artista del collettivo, conferma la mia sensazione “C’è qualcosa di magico in questo carretto”, mostrandomi sull’asse posteriore, non a caso la parte più delicata della struttura di legno, un palindromo benaugurante medioevale, una sorta di misterioso incantesimo: Sator arepo tenet opera rotas.

Si tratta di una magia popolare senza dubbio, dove l’opera d’arte viene spogliata della sua intoccabilità per piombare sul selciato polveroso e vivo, praticamente diventando come quelle statue nelle chiese fatte per essere toccate ed erose dalle lacrime e dalle mani sudate dei fedeli, anziché essere abbronzate dalla luce dei flash degli intenditori di statuaria religiosa.

Spiega Leone:“Le ruote creavano un rumore ritmico che, unitamente a quello degli zoccoli dell’animale da traino, forniva ai carrettieri la base per una melodia da intonare durante il viaggio. Abbiamo deciso di lasciarle così, usurate, dopo aver fatto sfilare il carretto trainato da una mula per le strade di Terrassina, dove abbiamo coinvolto anche la popolazione.

Insomma “U carriettu avi a sunari”.

Gli chiedo come abbia reagito la gente a questa inusuale sfilata: “Beh, gli anziani sono tornati indietro nel tempo ricordandosi dei carretti originali della loro gioventù, i bambini invece, coinvolti precedentemente in un workshop nel nostro laboratorio, sono rimasti particolarmente affascinati proprio dalla mula”.

Persino ora, nello spazio immacolato e sacralizzato della galleria, gli artisti si tengono ben lontani da ogni snobismo o concettualismo. Non sembrano particolarmente preoccupati che l’azione venga riconosciuta o meno come artistica; agli abitanti di Terrasini non è stato dato un comunicato stampa per interpretarla, l’hanno vissuta e tanto basta, nemmeno è rilevante che ai bambini sia piaciuto forse di più l’asino.

Vincenzo, altro artista del Laboratorio Saccardi, mi informa delle loro intenzioni a ripetere la performance a Roma, percorrendo un itinerario che tocchi luoghi politici come il Parlamento e i vari ministeri, il che sarebbe particolarmente pregnante, considerando che accanto a icone più ludiche (uno su tutti Frank Zappa, originario del paese dov’è stato recuperato il carretto originale), vengono rappresentate le più terribili stragi mafiose, sempre però con un’ironia caustica che poi corrisponde alla visione di questi giovani artisti sull’attualità: “Noi ci siamo persino limitati” mi spiegano“sui carretti originali erano raffigurate scene molto più violente”.

Ma aimè, il carretto è vuoto, al centro è rappresentata l’isola della Sicilia con il suo antico nome Sikania, lì vicino ci sono dei vasi e delle immagini che riprendono il repertorio iconografico del carretto, e la roba dov’è?

Svuotato il termine del suo originario significato materiale, la roba assurge a retaggio culturale, a memoria di un popolo, roba che diventa robba, perché, li scusasse Verga, così la si pronuncia nel siciliano.

E questo accumulo di simboli antichi e attuali, gli eroi moderni, ribelli, magistrati e cittadini trasfigurati in eroi epici, le loro storie oramai patrimonio culturale e affettivo dei siciliani, accostati con disinvoltura alla triscele con le Converse, e poi ancora scrittori come Lucio Piccolo nelle vesti di un mago, Pirandello nelle sembianze di un corvo, Sciascia che fuma un sigaro, ecco, tutto questo è la vera ricchezza di un popolo fierissimo, traboccante di ricordi e racconti, che in punto di morte griderà ancora “Roba mia, vientene con me!”

Naima Morelli

13 maggio 2010

Z2O Galleria – Sara Zanin , Roma

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Pinocchio è stato inghiottito dalla balena, ma quando si trova nella prima stanza della Galleria Ingresso Pericoloso ancora non lo sa.

Ne vede le vertebre scure, ma crede siano scale, una stairway to heaven a chiocciola la cui sommità non è possibile raggiungere, poi concentra la sua attenzione su delle strutture tubolari simili a flauti, mentre un rumore ancora lieve, vagamente minaccioso, fa da eco ai suoi passi.

Decide di chiamare tutti i suoi amici, quelli del paese del balocchi, con la chiara intenzione di far baldoria in quello spazio tutto bianco interrotto dalle misteriose istallazioni nere.
Non l’avesse mai fatto: il rumore cresce esponenzialmente quanto più Pinocchio e i suoi amici si agitano, diventa insopportabile, l’organismo si ribella, tutti i buttano a terra con le mani sulle orecchie e si dimenano ancora di più, ma il rumore non cessa anzi, aumenta ancora e sembra gridare: “Siete troppi, state fermi, questa vostra smania, andate via, via, via!”

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Per aggettivare la Transavanguardia si è spesso scelto come vocabolo “gioia”, il recupero della gioia, qual è quella del dipingere, della figurazione, del colore, della certezza.
Della certezza?

Ognuno la pensi come vuole, ognuno è libero di chiedersi se ha senso ancora la pittura oggi, o addirittura se proprio oggi più che mai ha un senso dipingere.
A voler fare cartine tornasole delle pagine dei quotidiani, la nomina di Sgarbi come curatore del Padiglione Italia alla prossima biennale e come responsabile dell’acquisto delle opere per il Maxxi, è un segnale eloquente di un sentire probabilmente diffuso, almeno in Italia.

A volerlo invece chiedere direttamente a Sandro Chia, ci sentiremmo con ogni probabilità rispondere così come fece in un’intervista trovata su youtube, non avendolo, pover’uomo, né qui disponibile, né possedendo il suo numero di telefono.

Nell’intervista trovata in rete, Sandro ci spiega che, nell’arte come nella vita, siamo arrivati ad un punto nel quale il tempo nel senso darwinistico del termine, quest’idea del progresso, non è più applicabile, non è più vera. E’ come se il Tempo fosse finito, interrotto e questi fossero i tempi supplementari quindi, come in una partita di calcio, ogni ottenimento in questo momento sarebbe determinante.

Può darsi siano passati all’incirca una trentina d’anni dal fischio di inizio di questi supplementari, ma Sandro giustamente continua a testa alta il suo discorso cominciato ai tempi della Trasavanguardia, di cui lui, per proseguire nella metafora calcistica, era, è uno degli attaccanti.

Comunque sia, basta domande, a questo punto sono inutili.
Transavanguardia è stata e Transavanguardia sia, adesso Sandro Chia viene consacrato dalla GNAM, e di tutto ciò noialtri non possiamo che prenderne atto; la storia è stata già scritta e ci sta pure bene così.

Cominciamo dall’inizio, dal sottotitolo: “Della pittura, popolare e nobilissima arte”.

Ah.

Ma chi gli ha dato questo titolo? Achille, più in vena di poesia del solito? Sul nobilissima non c’è dubbio, sul popolare più di uno per la verità.

Per capire quanto di vero c’è in questo titolo avrei dovuto fermare uno dei muratori che al mio passaggio, come d’altronde a quello di ogni essere dalle sembianze vagamente femminili, mi ha squadrata apostrofandomi con un “A bellaaaa… ndò vai?” . L’avrei dovuto trascinare ancora tutto pieno di calce fin dentro Villa Borghese, poi farlo trottare su per i gradini della Galleria Nazionale e metterlo di fronte ai dipinti della mostra in questione. Con tutti i suoi pregiudizi dettati da una pessima se non nulla educazione artistica, con la sua probabilmente scarsa sensibilità (dedotta non dall’essere muratore ma dal suo apostrofare senza ritegno giovincelle per strada), che cosa penserebbe dunque questo individuo della pittura di Sandro Chia?

Mi risponderai Sandro, (al diavolo la professionalità) se quando mi verrai a trovare a casa un pomeriggio ti chiederò se credi in un’arte democratica?

Comunque sia, qualcosa di immediato, di sentimentale, agli animi un minimo superiori al volgo-maria-de-filippi, Sandro Chia lo dice, eccettuando derive sentimentalistiche come “Single Winged Angel”, l’angelo con una sola ala, un cuore tra le mani, in cerca di un altro angelo monoalare senza il quale spiccare il volo sarebbe impossibile, una sorta di androgino versione emo (chiedete di questo movimento giovanile giù nella vicina Piazza del Popolo a quei tipacci tristi sotto le chiese gemelle) scultura la quale forse garberebbe pure a Federico Moccia and friends.

Meno male che un altro gruppo scultoreo, le bagnanti, viene a riscattare l’artista, con il suo carico di sogno e proiezioni evocate dalle due figure che si specchiano l’una nell’altra attraverso il foro in un muro divisorio.

Ma passiamo alla pittura, mezzo espressivo principale dell’attività pittorica di Chia.

Non voglio esaltare positivamente il fatto che nei dipinti si leggano di volta in volta chiaramente Chagall, Picasso, Cezanne, De Chirico, Savinio, Carrà, Picabia etc., né ho intenzione di criticarlo per questo (se non altro perché poi non mi verrebbe più a trovare a casa un pomeriggio come gli sto chiedendo dall’inizio di questo articolo).

Evidentemente Chagall, Picasso, Cezanne, De Chirico, Savinio, Carrà, Picabia  sono il suo modo. Il suo mondo.

A lui sono chiaramente piaciuti di volta in volta Chagall, Picasso, Cezanne, De Chirico, Savinio, Carrà, Picabia, e ha deciso, forse nemmeno volontariamente, di attingere a Chagall, Picasso, Cezanne, De Chirico, Savinio, Carrà, Picabia. Non voglio chiamarlo “ecletticità dello stile”, né osare accusarlo di “mancanza di uno stile personale”. E’ un dato di fatto, ma questo modo di procedere, capirete, può creare capolavori tanto quanto quadri inutili. Toccherebbe perciò disquisire di ogni dipinto come un discorso a sé, in mancanza di un’unità sia stilistica che contenutistica se non un certo interesse per la figura umana e i suoi stati d’animo.

Se è vero che ce n’è per tutti i gusti, ecco allora una personale selezione gourmand: il meraviglioso “Fire Game”, dove il colore ancora vivo e materico sulla tela grezza sembra fiammeggiare con impeto, “La cucina di Dioniso”, un’esplosione di bellezza ed energia pura, la vera gioia del colore, e “Salve a te vecchio Oceano”, tre balene in scala simili a sardine in un cartoccio, adagiate su una tela di cui si legge ancora la trama, ricordando quasi una rete da pesca.

C’è dunque gioia nel percorso pittorico di Sandro Chia, “liberato dalla schiavitù della novità”, come si dice sempre dei membri dell’allegra compagnia della transavanguardia? Lo chiedo al muratore di cui sopra: “Avoja”

C’è qualcosa che importi di più di questo?

Naima Morelli

Sandro Chia. Della Pittura, popolare e nobilissima arte.
Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma
16/12/2009
28/02/2010

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Accademia Tedesca – Borsisti 2009

Ancora una volta L’Accademia Tedesca di Villa Massimo diventa protagonista in ambito artistico-culturale, barrando la casella 26 marzo sul fitto calendario di eventi che ha sempre organizzando fin dalla sua fondazione, e per i quali è particolarmente attiva negli ultimi tempi, proponendo circa una trentina di eventi all’anno, tra mostre, concerti e serate di lettura.

Quest’anno come di consueto, data ventisei di marzo, è stato presentato dei borsisti dell’Accademia Tedesca, una rosa di nove artisti destinati a suscitare grande interesse, molti già attivi nel tessuto artistico romano con proprie personali e tutti ampiamente riconosciuti all‘estero, non solo in Germania.
Questi “Sipendiaten”, tutti sulla quarantina, sono artisti i quali, con romantici stralci nella migliore tradizione del “Gran Tour”, sono stati ritenuti meritevoli in base alle loro eccezionali capacità nel rispettivo campo artistico di appartenenza, non necessariamente figurativo ma anche letterario, musicale, architettonico, in breve creativo.
Sono loro stessi a decantare la capitale italiana come luogo ideale dove trovare ispirazione per la loro produzione, liberi da problemi economici di sorta.

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Sulla pittura di questi tempi se ne dicono più che sul punk dieci anni fa; la pittura è morta, la pittura non morirà mai, la pittura esiste solo perché è una certezza per i non-introdotti all’arte contemporanea e così via.
Ognuno ha la sua opinione e a maggior ragione un pittore contemporaneo come Gèrard Garouste ne ha una, e la grida con fermezza dalla sua retrospettiva a Villa Medici.
Sappiamo che dopo la batosta dell’invenzione della fotografia, il colpo di grazia alla pittura è stato inferto da quell’ottimo giocatore di scacchi qual’era Duchamp.

Se per molti la lezione di Marcel è equivalsa ad un superamento della pittura, Garouste ne ha ritenuto l’insegnamento opposto; vista la saturazione della sperimentazione pittorica la quale ha portato appunto all’invenzione del ready made “la pittura deve ritornare a soggetti complessi, rivolgendosi al suo passato”.
Orrore e raccapriccio, un ritorno al più oscuro, simbolista figurativismo! Ma sarà poi davvero orrore e raccapriccio?

Garouste ha assimila le avanguardie, si confronta con i grandi maestri della storia della pittura, si ispira alla Bibbia, alla Divina Commedia, a Don Chisciotte, alla Haggadah ebraica, trasferisce il tutto su tele generalmente di grande formato, o addirittura tele indiane (vale a dire senza telaio).

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